Al di qua del bene e del male

Friedrich Nietzsche
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pillola di Fabio d’Aguanno

“Nulla è. Se anche qualcosa fosse, non sarebbe conoscibile. Se anche qualcosa fosse conoscibile, non sarebbe esprimibile.” Queste caustiche frasi, attribuite al sofista Gorgia, riassumono alla perfezione il concetto di nichilismo, corrente filosofica che fa dell’assenza di qualsiasi verità il proprio assunto fondamentale: “non ci sono fatti, ma solo interpretazioni”, afferma il padre del nichilismo contemporaneo, Friedrich Nietzsche.

In Al di là del Bene e del Male Nietzsche esprime l’auspicio che sopraggiunga una società nuova in cui gli uomini superiori possano liberarsi dai vincoli morali ed elevarsi al di sopra della massa. Quello nietzschiano è uno scenario dominato solamente dai rapporti di forza, in cui concetti quali bene e male non sono che artificiose catene. Non esistono azioni buone o cattive: semplicemente, si fa tutto ciò che si ha la possibilità di fare.

Ebbene, questa breve pillola ha la pretesa di contestare il fondamento della tesi nichilista, traendo spunto dalla critica a Nietzsche elaborata da Roberta De Monticelli nel proprio libro Al di qua del bene e del male (2015), di cui la stessa autrice ha parlato nel giugno 2017 presso il liceo Zucchi nell’ambito del percorso Tra Ethos ed Etica.

La storia del Novecento ha ben evidenziato di cosa sia capace l’uomo se svincolato da ogni norma morale. Di fronte a guerre, stragi e genocidi, un nichilismo che rifiuta ogni verità, anche in campo etico, non può che condurre a due possibili conclusioni: o negare che tali accadimenti siano fatti; o accettare che siano fatti senza però ammettere che siano negativi. È evidente che entrambe le posizioni siano quanto meno difficili da accogliere: e non è un caso se, con la Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo, si è voluto mettere nero su bianco enunciati che garantissero che tali orrori non si verificassero mai più.

Ma come è possibile un superamento del nichilismo nietzschiano? Come poter trovare basi solide su cui fondare una nuova morale? Fondamentale per rispondere a questo quesito è il concetto di valore.

Il termine “valore” porta con sé un’aura polverosa di vetustà: ci fa pensare ai grandi ideali che le generazioni passate ci hanno trasmesso, a qualcosa di granitico e consolidato. Occorre tuttavia trasformare la semantica di questa parola, in quanto tutti noi, anche nella più banale quotidianità, viviamo di valori. E non si tratta solamente di concetti altisonanti come bene e giustizia: ogni volta che giudichiamo un caffè buono o cattivo, che proviamo freddo o caldo, che decidiamo che una maglietta è più bella di un’altra, non stiamo facendo altro che emettere dei giudizi di valore.

Emerge immediatamente un problema: come stabilire che una cosa è bella, giusta o buona? Esiste un solo modo per non sfociare nel relativismo, in un banale “non è bello ciò che è bello ma è bello ciò che piace”. E consiste nel fornire una motivazione, o, meglio, una giustificazione per qualsiasi giudizio di valore si esprima. Pensi che questo oggetto sia bello? Ebbene, fornisci una valida motivazione su cui ci si possa confrontare. Emblematica, a tal proposito, risulta la figura di Socrate, per come ci viene presentata nei primi dialoghi platonici: il filosofo pone al suo interlocutore una domanda e, soprattutto, gli chiede di fornire un’evidenza che possa giustificare la sua risposta.

Perché, in definitiva, si può dire che una cosa è bella, giusta o buona? Semplice: serve cercare il giudizio che lo spieghi in modo evidente.

Tentiamo ora di applicare queste affermazioni nell’ambito dell’etica. Di fronte a guerre, stragi e genocidi, ogni uomo sano di mente non può che condannare tali avvenimenti, che ai suoi occhi risultano essere evidenti disvalori. Ma su cosa si fonda questo giudizio? Come poter dire con certezza che un simile evento è un male?

In ultima analisi, la giustificazione di un tale giudizio affonda le sue radici nel sentire dell’individuo. È possibile affermare che guerre, stragi e genocidi sono moralmente illeciti dal momento che sono sentiti come tali. Come una voce stonata in un coro, così un atto eticamente scorretto salta subito agli occhi, viene immediatamente percepito come tale.

Tuttavia, come è difficile dare una spiegazione razionale del perché una voce ci sembra stonata, così non è facile fornire una giustificazione precisa del perché si sente che guerre, stragi e genocidi sono disvalori. E in effetti il fondarsi sul sentire individuale non esclude totalmente il rischio di un ritorno ad un nichilismo secondo cui l’oggetto o il fatto in sé non è dotato di un valore. Sono gli uomini – afferma Nietzsche – a proiettare sull’oggetto o sul fatto le proprie opinioni e interpretazioni, in maniera arbitraria e soggettiva.

Per poter rispondere alle sirene relativistiche, una posizione oggettivista e cognitivista come quella di queste righe trova un formidabile alleato in Pascal. Il pensatore francese, in uno dei suoi Pensieri, afferma infatti che “il cuore ha le sue ragioni, che la ragione non conosce”. Scopo di questo suggestivo aforisma non è certo opporre banalmente sentimenti e razionalità, bensì distinguere tra una conoscenza immediata ed intuitiva – il “cuore” – ed una mediata e ragionata – la “ragione”. Due forme di conoscenza che, lungi dall’essere in contrasto, convivono come complementari nel percorso che porta al raggiungimento della verità.

Come questa distinzione può essere utile in campo morale? Come già detto, cuore e ragione devono collaborare nella ricerca della verità: in quali termini?

Il cuore, di fronte a un atto moralmente illecito, è quello che ne percepisce il disvalore in maniera immediata ed istintiva – disvalore che, è bene sottolinearlo, non è una mera interpretazione, ma una caratteristica intrinseca di tale atto. Davanti a un atto violento, insomma, ciascuno sente a livello emotivo che davvero ciò è sbagliato. Per fare un esempio banale, il vedere che un quaderno è rosso è la fonte per dire che quel quaderno è rosso: ugualmente questo sentire è la fonte di evidenza che mi autorizza a dire che quell’atto è sbagliato.

Compito della ragione è quindi “dar ragione” di ciò che si sente, trovare un valido fondamento al giudizio di valore. È grazie alla ragione, ad un cammino complesso e meditato, che si possono individuare motivazioni razionali che giustifichino e rafforzino ulteriormente il giudizio fondato sul sentire personale: quali, ad esempio, il diritto alla vita di tutti gli esseri umani, il rispetto del prossimo, e così via. Con la ragione si passa dalla dimensione individuale a quella intersoggettiva e universale.

In conclusione: perché si può dire che guerre, stragi e genocidi sono moralmente illeciti? Perché, innanzitutto, si sente che sono disvalori. Davanti, ciascuno di noi rabbrividisce nella regione più profonda dell’animo e percepisce che, in fondo, c’è qualcosa di sbagliato in ciò che vede.

Occorre tuttavia una precisazione: il nostro sentire non è né infallibile, né tanto meno innato o precostituito. Al contrario, esso è il frutto di un lungo percorso, è un processo in continua formazione, è costantemente arricchito dal nostro vissuto. E, soprattutto, si può educare. In questo senso, ancor più degli stimoli e delle indicazioni che possono provenire dall’esterno, è fondamentale compiere un percorso tutto interiore di riflessione ed approfondimento.

La realtà che ci circonda è carica di valori, che tuttavia spesso sono difficili da individuare: bene e male non sono entità monolitiche e nette, ma si declinano negli atti del quotidiano in maniera sfumata, incerta, imperfetta. È difficile imbattersi in un’azione totalmente buona o totalmente cattiva: molto più facile, invece, che, dovendo stabilire se un’azione sia buona o cattiva, ci si trovi nell’incertezza. Gli esempi abbondano: basti pensare alle discussioni su temi quali aborto, eutanasia, infibulazione e così via.

Come si può uscire da questo impasse? La soluzione non è certo affidarci ai dettami provenienti dall’esterno, subordinando, ad esempio, il nostro sentire all’opinione comune. Piuttosto, di fronte a una controversia, è necessario andare oltre la prima superficiale impressione per scavare nelle profondità della nostra coscienza, fino a comprendere che cosa il nostro “cuore” davvero senta. Sarà poi compito della “ragione” dare un fondamento solido ai giudizi del cuore, rendendo così possibile un dialogo.

Educare il sentire significa, insomma, intraprendere un continuo percorso di autoanalisi e di esplorazione della realtà – di questa realtà intricata e confusa, fatta di valori che si mescolano e si declinano in mille modi diversi.