Interpretare il tragico - Le Troiane del gruppo Koralion (2)
pillola di Pietro Cappelletto
Ma ecco che i significati si moltiplicano in un caleidoscopio di punti di vista diversi. Ecuba è sulla scena dolente e affranta, stesa al suolo della rasa al suolo Ilio, incapace di movimenti che non siano di dolore, consapevole che si deve cantare comunque, che null’altro resta se non il canto.
Cassandra (Foto di Andrea Tetto)
Ma Cassandra, la mai creduta Cassandra, la pecora nera della famiglia, potremmo dire, considerata un po’ tocca, invasata dal dio, in preda a frenetica follia bacchica, Cassandra vede una verità del tutto paradossale, eppure profondamente sincera: la gioia per le sue nozze regali, che la rendono ancora più inattendibile per Ecuba, appare invece fondata su argomenti razionali rilevanti, pur se paradossali: i Troiani sono più felici dei Greci.
La guerra di conquista e l’ansia di conseguire la gloria hanno privato i Greci del calore del focolare e della famiglia per dieci lunghi anni, li hanno privati in molti casi degli onori funebri in patria, e l’ira degli dèi toglierà o renderà funesto il ritorno di quasi tutti i loro capi superstiti. Il paradosso è in verità valido in ogni epoca, tempo e luogo: l’avidità per ciò che non si possiede porta alla perdita di ciò che è già nostro, che ai Troiani non sarà mai tolto, nemmeno dopo la morte.
Andromaca è vittima e addirittura narratrice in prolessi della morte terribile del piccolo figlio, che sarà precipitato a capofitto dalle mura di Troia. Noi viviamo in una società dell’immagine che ci bombarda quotidianamente di scene cruente, vere o fittizie, da reportage o da film, senza che nemmeno sappiamo più distinguere le emozioni che proviamo. Andare a teatro per un greco era l’esperienza unica e cruciale di vivere senza rischio diretto le emozioni più forti, evocate non già dalle immagini (era consuetudine che le scene di sangue non si svolgessero sulla scena), ma dalle parole, da parole di formidabile potenza drammatica. La descrizione accurata del corpo sfracellato del piccolo Astianatte ci scuote, non ci lascia respiro e forse si fa strada in profondità nei nostri neuroni altrimenti narcotizzati dal susseguirsi e sovrapporsi di immagini sempre più violente, ma forse proprio per questo sempre meno toccanti. Così ci appare in tutta la sua evidenza la barbarie, la selvaggia barbarie di cui Andromaca accusa i ‘civili’ Greci, quegli stessi Greci che ad Atene sedevano a teatro con le mani insanguinate, che avevano ucciso gli uomini e deportato donne e bambini non di una città straniera, come Troia, ma di un’altra polis greca.
Il dibattito su Elena è abbondante negli autori: tutti cercano di stabilire se vi sia, e in che misura, responsabilità per la donna traditrice della fedeltà coniugale e causa di una guerra così violenta. Euripide stesso si occupa dell’argomento nella tragedia a lei intitolata, scegliendo la posizione ‘innocentista’: Elena in realtà non giunse mai a Troia, ma vi giunse un suo εἴδωλον, un fantasma con le sue fattezze. La bellissima spartana aveva trascorso quei dieci anni in Egitto, dove poi Menelao si premurerà di recuperarla. Già quella tragedia, l’Elena, metteva in luce la vanità della grandiosa guerra cantata da Omero, combattuta per inseguire un fantasma. Ma dunque Euripide si contraddice nelle Troiane? Nel dibattito a discorsi contrapposti dell’ultimo quadro Ecuba sembra avere la meglio su Elena e Menelao conclude con la terribile decisione: “morirai!”.
Ma tutto il pubblico, tutta la Grecia, tutti noi sappiamo perfettamente che Elena non morirà affatto. Il poeta più grande, Omero, l’autorità indiscussa, ce la presenta nell’Odissea (III libro) serenamente rientrata come sposa legittima nella casa di Sparta con il suo Menelao, mentre offrono ospitalità a Telemaco. Nemmeno l’ombra di un contrasto dopo vent’anni di guerre, viaggi e memorie. Euripide scherza, si prende gioco della serietà tronfia e solenne degli eroi Greci, e persino del giusto rancore dell’autorevole Ecuba. Elena, che pare sconfitta senza appello in questa tragedia, salverà la propria vita. I Greci vincitori saranno quasi tutti annientati sulla via del ritorno. Le donne troiane destinate a cupi giorni di schiavitù troveranno tutte uno spazio di affermazione indelebile della propria grandezza morale: Andromaca si libererà presto della schiavitù presso Neottolemo e si guadagnerà una nuova casa in Epiro con il troiano Eleno; Ecuba vendicherà la morte del figlio Polidoro e avrà la meglio nel giudizio contro lo stesso suo nuovo padrone Odisseo; Cassandra troverà la morte con Agamennone, ben sapendo, come dichiara gioiosamente, di essere parte della più dolce e tremenda delle vendette.
Tutto sembra perduto. Gli dèi, come dice Poseidone nel prologo, abbandonano la terra devastata dove non si fanno più sacrifici. Zeus è assente e “dispersi nel nulla sono i sacrifici in suo onore”, come il coro osserva nel bellissimo III stasimo. Eppure gli uomini, anzi, in questo caso le donne, hanno più risorse degli stessi dèi e nulla è davvero come appare.
E così si chiude questa tragedia, apparentemente con le donne prostrate a terra e gli uomini vincitori in preda a follia incendiaria. Ma lo spettatore ha compreso la lezione. Le donne, le donne più di tutti fragili e dolenti, alla mercè della violenza maschile, le donne sono le vere vincitrici di questo dramma, sopravvivono alla storia nella loro vicenda mitica e nella memoria che si rinnova ancora oggi sulla scena.