Da Parmenide a... Matrix

pillola di Laura Cecchetto e Martina Miccoli

Siamo sicuri che ciò che appare sia ciò che veramente esiste? Ciò che veramente è?

Tutto potrebbe essere una finzione, come nel celebre capolavoro di Peter Weir The Truman Show (1998) o come nella saga di Neo, per cui il mondo reale non è altro che proiezione di sogni di esseri umani ridotti a larve addormentate (Matrix, 1999).

Immagine promozionale del film "Matrix" del 1999
Immagine promozionale del film “Matrix

Bisogna scegliere: davanti al bivio, accettare, come Neo, di lasciare le apparenti sicurezze del mondo solo in apparenza reale e infilarsi nella via che ci porta dritti alla verità delle cose che sono; o continuare a lasciarsi ingannare, proseguendo sulla via della menzogna.

Questa trama avvincente era già scritta duemilacinquecento anni fa nel poema Sulla Natura di Parmenide di Elea, di cui possediamo solo alcuni frammenti, ma sufficienti per capire che… era davvero un testo difficile!

In questa ‘pillola’ proviamo a spiegarne qualche passaggio seguendo la lezione tenuta diversi anni fa nel nostro liceo dal Prof. Franco Trabattoni nell’àmbito del percorso su Saggezza e verità nella Grecia antica.

Chi ha studiato filosofia sa che Parmenide è il vero e proprio fondatore della “ontologia”, uno dei primi maestri del pensiero occidentale, a cui il grande Platone dedicò uno dei suoi dialoghi.

Secondo Parmenide, di fronte all’uomo si apre un bivio, due strade fra cui scegliere il proprio cammino.

La prima è il sentiero della ἀλήθεια, della verità rivelata o della luce, della chiarezza logica, che è raggiungibile per mezzo della ragione. La conoscenza della verità è quindi verticale, perché penetra in profondità e ci porta a conoscere l’essere nella sua veridicità. Essa viene descritta da Parmenide nel libro “Sulla natura” come una dea (probabilmente Dike, dea della Giustizia) che svela il senso profondo delle cose, senza voler far sentire l’uomo inferiore, “chinando la testa”: infatti non richiede all’uomo un sapere meccanico, bensì di ragionare con coerenza e comprendere razionalmente la verità.

C’è poi il sentiero della δόξα, delle opinioni ingannevoli o delle tenebre che è basato sui sensi e sull’illusione e quindi viene scelto dalla maggior parte dei “viandanti”. E’ una conoscenza orizzontale, superficiale, che si ferma alle apparenze.

Ma cosa è l’essere? È interessante il fatto che non abbiamo un termine preciso per indicarlo: nei frammenti a noi pervenuti ritroviamo l’espressione τὸ ἐόν, reso in italiano con “ciò che è”, mentre non compare mai τὸ εἶναι, traducibile con “l’essere”. A questo punto ci si potrebbe chiedere quale sia la differenza tra “ciò che è” e l’essere: il primo indica un qualcosa di specifico, mentre il secondo è un termine collettivo e generale per indicare le cose che esistono. Parmenide non parla dell’essere in sé, ma utilizza un participio neutro sostantivato del verbo essere, indicando dunque qualcosa che è, un ente, più che quello che noi chiamiamo “essere”.

Il nodo della questione si trova nel frammento 2 di Parmenide, che afferma:

Εἰ δ’ ἄγ’ ἐγὼν ἐρέω, κόμισαι δὲ σὺ μῦθον ἀκούσας,

αἵπερ ὁδοὶ μοῦναι διζήσιός εἰσι νοῆσαι·

ἡ μὲν ὅπως ἔστιν τε καὶ ὡς οὐκ ἔστι μὴ εἶναι […]

ἡ δ’ ὡς οὐκ ἔστιν τε καὶ ὡς χρεών ἐστι μὴ εἶναι.

τὴν δή τοι φράζω παναπευθέα ἔμμεν ἀταρπόν·

οὔτε γὰρ ἂν γνοίης τό γε μὴ ἐὸν (οὐ γὰρ ἀνυστόν)

οὔτε φράσαις.

Da queste frasi si evince il principio cardine della filosofia eleatica: una forte distinzione fra essere e non essere. Una traduzione di questo frammento potrebbe essere: “Orbene io ti dirò e tu ascolta attentamente le mie parole, quali vie di ricerca sono le sole pensabili; l’una “che dice” che è e che non è possibile che non sia, è il sentiero della Persuasione (giacché questa tiene dietro alla Verità); l’altra “che dice” che non è e che è necessario che non sia, questo io ti dichiaro che è un sentiero del tutto inindagabile: perché il non essere né lo puoi pensare (non è infatti possibile), né lo puoi esprimere, … infatti il pensare implica l’esistere (del pensato)”. (G. Giannantoni)

Si può dedurre che il non essere non è indagabile, non è rappresentabile, non è definibile, dal momento che non ha un nome specifico ma è tratteggiato solamente come la negazione dell’essere.

Può però sorgere un’altra domanda: “In che modo si può affermare ciò che non è?” Secondo la concezione parmenidea, se noi predichiamo qualcosa in senso negativo, senza accorgercene affermiamo il non essere. Ma bisogna fare attenzione: il non essere non coincide con il vuoto. L’essere, al contrario, è la realtà, il pensiero che la concepisce, il linguaggio che esprime il pensiero stesso. Parmenide afferma che non è possibile dire e pensare il “non essere”, ma intorno a noi vi è sia “l’esistere” sia il “non esistere”.  Il problema resta dunque aperto e ancora oggi gli studiosi si interrogano sul senso delle riflessioni di Parmenide.