Νόμος, φύσις, semafori rossi

pillola di Fabio D’Aguanno

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Semaforo rosso in Viale Cesare Battisti, a Monza (MB), città sede del liceo

È notte. Sei in macchina. Stai tornando a casa dopo una cena. Sul sedile del passeggero un amico. Per strada neanche un’anima viva.

Arrivi ad un incrocio. Semaforo rosso. Nessuna traccia di altre automobili per chilometri e chilometri. La strada è un deserto.

Eppure, ti fermi. “Cosa aspetti?” ti chiede l’amico. “Vai. Non c’è nessuno. Nessuno ti vede. Nessuno ti multerà. Non succederà assolutamente niente. Che ti importa del semaforo?”. E invece no: tu ti fermi, e aspetti finché non scatta il verde.

Diciamolo: per comportarti così devi davvero essere un idiota. Oppure un genio.

Questo semplice racconto attualizza, con le dovute proporzioni, un tema filosofico assai caro agli antichi Greci. Un tema vecchio di millenni eppure sempre vivo: nell’Atene classica si sarebbe parlato di “νόμος καὶ φύσις”, noi oggi, più prosaicamente, diremmo “contrasto tra istinti naturali e leggi positive”. Espressione poco affascinante, che non rende appieno la profondità di significato dell’originale greco.

Cosa è il νόμος? È la “legge”. Legge nel senso di principio regolatore della convivenza, di norma che presiede alle relazioni, di insieme di imposizioni all’interno di una comunità. Sin dalla notte dei tempi, laddove c’è stata un’aggregazione di uomini, ci sono state delle leggi che ne salvaguardavano la sopravvivenza ed il funzionamento. Tali νόμοι, tali prodotti della mente umana, hanno da sempre come obiettivo quello che potrebbe essere chiamato “bene comune”, il raggiungimento di una situazione da cui l’intera comunità trae benefici.

Cosa è la φύσις? È la “natura”. Natura nel senso di indole umana, di istinto, di innata disposizione. In che cosa consista la φύσις umana e se essa sia buona o cattiva è una delle domande più care alle filosofie di ogni tempo, e le risposte sono le più svariate. C’è chi nell’uomo ha visto un essere buono per natura, che viene corrotto dalla società. C’è chi invece ha visto una belva selvaggia e feroce, pronta ad azzannare il prossimo. Ed è questo il caso di alcuni pensatori tra i più intriganti e controversi di tutta la storia greca: i sofisti. E in particolare di filosofi quali Trasimaco, Antifonte e Callicle.

Questi tre autori, seppur con qualche significativa differenza, affermano la stessa tesi: che l’uomo tende per sua natura a perseguire il proprio interesse e a sopraffare il prossimo. Che quindi, in un mondo in cui ogni uomo è per natura incline a sbranare il suo vicino, il solo vero criterio regolatore dello stare insieme è costituito dai rapporti di forza: il pesce grande mangia quello piccolo. E che è non solo inevitabile, bensì giusto e naturale che le cose stiano così.

Ed è quindi facilmente comprensibile, in quest’ottica, il sorgere di un conflitto tra νόμος e φύσις: se la prima è tesa al bene comune, la seconda spinge inesorabilmente l’uomo all’affermazione personale. Homo homini lupus: è questo il vero stato delle cose. Ed è così che Trasimaco teorizza che la giustizia è l’utile del più forte; Antifonte afferma che la convivenza civile impedisce all’uomo di perseguire i suoi interessi ed assecondare la sua vera natura; Callicle sostiene che la sola legge che conta nella vita e nella natura è la legge del più forte.

Trasimaco, Antifonte e Callicle sono l’amico sul sedile del passeggero che dice di trasgredire la legge e passare col rosso: è la mia natura che mi dice di comportarmi così. Che importa se c’è un pedone? Noi non ci faremo niente. Sarà lui ad avere la peggio.

Ma davvero le cose stanno così? Già all’epoca queste tesi avevano fatto scalpore. Vari pensatori hanno tentato di fornire una risposta a questa concezione così individualista e per certi versi meschina dell’essere umano. E proprio un altro sofista, Protagora, pensatore “controcorrente”, è fautore di una visione dell’uomo molto meno radicale e più rassicurante. Una visione che ha qualcosa di interessante da dire riguardo il contrasto tra νόμος e φύσις. Essa viene raffigurata con tratti suggestivi ed evocativi nel celebre mito di Prometeo, il cui racconto si trova nel dialogo platonico intitolato appunto “Protagora”.

Si narrava che Zeus, dopo aver creato tutti gli esseri viventi, avesse affidato ad Epimeteo il compito di assegnare loro le caratteristiche e le qualità che sarebbero servite per la sopravvivenza della specie. Chi riceveva zanne e artigli, chi zampe rapide e agili, chi una folta pelliccia, chi una pelle coriacea: sembrava che Epimeteo avesse fatto un ottimo lavoro. Ma si era dimenticato dell’uomo. L’uomo era rimasto nudo ed inerme davanti alle minacce dei predatori.

Ed è così che entra in scena Prometeo, il fratello intelligente di Epimeteo. Non a caso “Prometeo” è colui che πρὸ μανθάνει, “che capisce prima” – al contrario del fratello, “che capisce dopo”. Nella versione tradizionale del mito egli dona all’uomo il fuoco rubato agli dei, ovvero, fuor di metafora, la τέχνη, l’abilità manuale. Gli uomini iniziano a riunirsi in comunità e grazie al fuoco possono difendersi dalle belve.

Ma per Protagora non è abbastanza. In quel mondo ipotetico gli uomini hanno sì il fuoco, ma non possono convivere. Se si riunissero, inizierebbero a sopraffarsi l’un l’altro, si distruggerebbero a vicenda. La comunità umana imploderebbe. Ed è così che interviene Zeus, che fa all’uomo il più grande regalo possibile: la αρετὴ πολιτική, la “virtù politica”, la capacità di stare insieme. Una virtù di cui tutti gli uomini sono fatti partecipi. Ed è così che si formano le prime aggregazioni umane.

Come ogni bella favola, anche questo mito ha una morale. E il senso è che l’uomo è un “animale politico” – “ἂνθρωπος ζῷον πολιτικόν”, dirà Aristotele qualche decennio più tardi. Che ogni essere umano è naturalmente portato ad associarsi con dei suoi simili. Che da soli non c’è salvezza, non c’è realizzazione, non c’è felicità. In questo mito troviamo una suggestiva eppure convincente sintesi tra νόμος e φύσις: l’uomo crea la legge per natura. Non è un caso se νόμος, prima ancora che “legge positiva”, vuol dire “abitudine, usanza, sentire comune”.

Ciò vuol forse dire che la natura umana è totalmente buona? Probabilmente no. Esistono istinti buoni così come istinti cattivi. E più volte nel corso della storia l’uomo ha dimostrato di essere in grado di abbandonarsi agli istinti peggiori se lasciato libero da qualsiasi legge. Trasimaco, Antifonte e Callicle si sbagliano solo in parte. Ma la φύσις umana è, almeno parzialmente, “buona”, perché è stato proprio l’uomo a creare con la sua razionalità delle leggi tese ad una convivenza pacifica. Leggi che non possono essere in totale contrasto con la natura umana perché proprio quest’ultima ne è in qualche misura la fonte.

A questo punto sorge spontanea una domanda: perché perseguire attraverso le leggi il bene comune prima che il bene individuale? Perché obbedire al νόμος e rinunciare a un interesse privato in nome della comunità? Non solo perché “è giusto così”, non perché ce lo dicono i libri di scuola o la Costituzione. Perché in quanto “animali politici” siamo membri di una società, siamo tutti sulla stessa barca, e se questa barca affonda, affondiamo anche noi. Non c’è salvezza fuori dalla comunità.

E allora, la prossima volta che tornerai a casa in macchina di notte e troverai un semaforo rosso, fermati. Avrai il tempo di riflettere e potrai raccontare di aver capito perché il rispetto delle leggi rende l’uomo veramente uomo.

[1] Questo racconto è una libera reinterpretazione di una frase di Gianni Vattimo